Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Assedio di Roma

390 a.C.

Gli avversari

Camillo, Marco Furio (M. Furius L. f. Sp. n. Camillus)

Fu censore nel 403 a. C., tribuno militare con potestà consolare negli anni 401 e 398, e interrex nel 397. Creato dittatore nel 396, pose fine al decennale assedio di Roma facendo penetrare nella città dei soldati romani per un cunicolo sotterraneo. La città fu distrutta, il dittatore trionfò. Il territorio romano, che prima non raggiungeva i 1000 kmq., si accrebbe di quasi 600 kmq., e Roma divenne lo stato di gran lunga più esteso del Lazio e dell'Italia Centrale. Col decimo della preda, secondo un voto fatto da Camillo all'Apollo Delfico, che aveva predetta la vittoria dei Romani, fu inviato a Delfi un cratere d'oro, che fu più tardi fuso durante la guerra focese, ma la base di bronzo rimase. Camillo, evocata solennemente la Iuno Regina di Roma, le dedicò un tempio sull'Avellino. Tribuno militare consolare per la terza volta nel 394, Camillo si rivolse contro Capena e Falerii. La tradizione dice che con Falerii la pace sarebbe stata conchiusa non per forza di armi, ma per l'impressione che sui Falisci fece la lealtà di Camillo, che rimandò in Città i figli dei loro principali cittadini condotti a lui da un pedagogo traditore, che egli fece spingere legato alla città dai giovinetti (Liv., V, 27; Plut., Cam., 10 ecc.). Nel 392 Camillo fu ancora interrex. Nel successivo anno 391, secondo la tradizione vulgata, cade il processo e la condanna di Camillo. Da Diodoro, XIV, 117, si è voluto da alcuni moderni indurre che secondo la tradizione più antica, riprodotta da questo autore, il processo sarebbe avvenuto invece nel 389, dopo la catastrofe gallica, e che sarebbe stato poi spostato al 391 per fare che Camillo fosse già condannato ed esule all'arrivo dei Galli; ma il Beloch (Röm. Gesch., pp. 117 e 304) ha dimostrato che la fonte della notizia in Diodoro collocava in realtà il processo nel 393, e che la data del 389 è frutto di una svista. Sulla natura del processo abbiamo versioni discordi: la più antica sembra quella che parla d'iniqua distribuzione o di sottrazione della preda di Roma, un crimine quindi di peculato. Un'altra versione parla invece di offese agli dei, per aver Camillo indossato nel trionfo l'abbigliamento di Giove e fatto tirare il suo cocchio da quattro cavalli bianchi; e questa versione alcuni pensano sia sorta nell'età cesariana, come protesta contro gli onori trionfali decretati a Cesare. Camillo andò prima della condanna in esilio ad Ardea, e la multa (da 15.000 a 500.000 assi a seconda delle fonti) gli fu quindi inflitta in contumacia. Alcuni moderni ritengono il processo e l'esilio o il solo esilio, inventati per fare che Camillo si trovasse lontano da Roma durante la catastrofe gallica e farlo poi ritornare al momento opportuno; ma, pur respingendo come fittizi o incontrollabili i particolari, il fatto, concordemente testimoniato, deve accettarsi come storico. In ogni caso, Camillo non figura nella prima parte del racconto della presa di Roma per opera dei Galli, e poiché Polibio dice che i Galli, concluso un patto coi Romani, se n'andarono con la preda (I, 6, 2; II, 18, 2; 22, 4), la critica moderna ritiene d'origine tarda ed escogitato allo scopo di cancellare l'onta del riscatto il famoso racconto, che mentre si stavano pagando ai Galli le 1000 libbre d'oro Camillo, richiamato con una legge dall'esilio ed eletto dittatore dai Romani rifugiatisi in Roma, sarebbe comparso in Roma con un esercito, gridando che col ferro e non con l'oro si salvava la patria e, dichiarato nullo il trattato conchiuso senza il dittatore, avrebbe sgominato i Galli. Sull'età e sui fatti che possono aver dato origine a questo celebre racconto si sono fatte molte ipotesi: il cosiddetto oro gallico custodito nel tempio di Giove Capitolino, e sulla cui provenienza gli antichi davano versioni varie, potrebbe aver fatto pensare che l'oro non fu pagato ai Galli, mentre altri ritengono che una sconfitta reale inflitta da Camillo a qualche banda vagante di barbari, possa aver dato origine al racconto. Camillo, dopo la vittoria, si sarebbe opposto ancora una volta, come dopo la presa di Roma, alla proposta di trasportare in quest'ultime città la sede dello stato romano (Liv., V, 49 seg.) e la questione sarebbe stata decisa dal comando del centurione, che passando per caso con la sua centuria attraverso il comizio, gridò: signifer statue signum: hic manebimus optime.

Camillo fu ancora interrex nel 389, ciò che presuppone il suo richiamo dall'esilio per la salvezza della patria minacciata, dopo la Catastrofe gallica, dalla ribellione dei Latini e dall'aggressione di tutti i suoi nemici tradizionali. Camillo, eletto dittatore nello stesso 389, soccorse l'esercito romano ridotto a mal partito dai Volsci, che vinse a Maecium presso Lanuvio; vinse quindi gli Equi, e infine a nord gli Etruschi che avevano preso Sutri. Con la preda furono fatte tres paterae aureae... quas cum titulo nominis Camilli aute Capitolium incensum in Iovis cella constat ante pedes Iunonis positas fuisse (Livio, VI, 4, 2); e contro questa testimonianza monumentale sembrano eccessivi i dubbi di alcuni moderni, che ritengono questa vittoria inventata per bilanciare la sconfitta avuta dai Galli o duplicazione di gesta anteriori. Tribuno militare consolare per la quarta volta nel 386, sconfisse i Volsci presso Satrico; ma fu richiamato al nord dagli Etruschi, ch'egli sconfisse. La somiglianza con la campagna del 389, fa dubitare che questa del 386 (al pari di quella del 381) ne sia un duplicato. Tribuno consolare per la quinta volta nel 384, Camillo si sarebbe opposto al tentativo di M. Manlio Capitolino di farsi tiranno; si narra anzi da qualche fonte di una dittatura di Camillo, che avrebbe assalito il Campidoglio occupato da Manlio; ma la notizia è sospetta. Tribuno consolare per la sesta volta nel 381, egli avrebbe condotto l'esercito contro i Volsci e i Prenestini, differendo però per prudenza la battaglia. La volle invece il giovane suo collega L. Furio Medullino, che, ridotto a mal partito, fu salvato da Camillo; ma questo racconto, che ritorna tante volte nella tradizione romana, è sospetto. Un fondo di vero pare invece abbia la notizia di una sua spedizione contro i Tusculani, che avevano prestato aiuto ai Volsci e che egli trovò pacifici; il senato perdonò loro, concesse la pace e poco dopo anche la cittadinanza. Camillo avrebbe rivestito per la quarta volta la dittatura per opporsi alle rogazioni Licinie-Sestie; ma non avendo ottenuto nulla, abdicò. Questa dittatura è tuttavia da molti ritenuta falsa. Nel 367, vecchio di ottant'anni e dittatore per la quinta volta egli avrebbe combattuto contro i Galli sull'Aniene o sui colli Albani e avrebbe trionfato (cfr. Livio, VI, 42, 4 segg.); ma poiché Polibio. II, 18, 6, dice che i Galli marciarono su Roma per la seconda volta trent'anni dopo l'Allia, la notizia è dalla maggior parte dei critici respinta. Nell'occasione di questa lotta con i Galli, Plutarco (Cam.. 40, 4) ricorda alcune riforme introdotte da Camillo nell'armamento dei Romani; ma non sembra ad alcuni critici che ciò sia sufficiente per parlare, come molti moderni fanno, d'una vasta riforma degli ordinamenti militari romani proprio per opera di Camillo, per quanto l'esperienza disastrosa della prima lotta coi Galli non possa non aver suggerito ai Romani delle riforme militari. Nello stesso anno Camillo sarebbe intervenuto ancora nell'agitazione per le leggi Licinie-Sestie, che egli avrebbe finito per far accettare ai patrizî, per pacificare gli animi; in quest'occasione avrebbe votato il tempio alla Concordia nel Foro. Camillo sarebbe morto nel 365 durante una pestilenza. Sui rostri nel Foro v'era una statua in bronzo molto antica di Camillo, forse con iscrizione, onore straordinario nella Roma del principio del sec. IV, e che testimonia l'impressione che sui contemporanei fece questo grande uomo, che fu sei volte a capo dello stato come tribuno militare con potestà consolare (uno degli esempî più notevoli d'iterazione di magistratura) e parecchie volte dittatore, e che la tradizione proclamò "secondo fondatore di Roma" (Plutarco, Cam., 1, 1). Disgraziatamente la tradizione sugli avvenimenti nei quali egli ebbe parte è giunta sino a noi in molti punti confusa e sospetta di alterazioni e gravi rimaneggiamenti; tanto che alcuni (Beloch) ritennero apocrifo tutto quello che di Camillo si racconta dopo la sua condanna; altri (Münzer) tutte le notizie dopo il 386; le cariche ordinarie da lui sostenute cessano col tribunato del 381, che alcuni ritengono perciò l'ultima testimonianza sicura della sua attività.


Brenno

Condottiero (regulus, secondo Livio V XLVIII 8) dei Galli che nel 390 a. C. conquistarono Roma; acconsentì a ritirarsi in cambio di un tributo, ma durante la pesatura dell'oro aggiunse al peso pattuito quello della propria spada esclamando " Vae victis ". Onde i Romani sdegnati ripresero le armi, e guidati da Camillo affrontarono e sterminarono gli invasori. La sconfitta di Brenno è ricordata in Pd VI 43-44, dove al personaggio, che la tradizione considera espressione tipica dell'arroganza barbarica e del sopruso brutale, si contrappone vittoriosamente l'aquila romana, emblema di sapienza civile e di giustizia. Vedi anche Cv IV V 18, Mn II IV 7.

La genesi

Dopo la disfatta del Fiume Allia i galli erano ormai stanziati nella periferia dell'Urbe e pronti all'assalto decisivo contro la città. A Roma nel frattempo, mentre ormai ogni cosa era pronta per la difesa della cittadella (almeno per quel che era possibile in un simile frangente), i moltissimi anziani fecero ritorno alle proprie case ad attendere l'arrivo del nemico, con animo deciso alla morte. Quanti tra essi erano stati detentori di magistrature curuli, volendo morire con addosso le insegne dell'antica fortuna, degli oneri e dei meriti, indossarono la veste augustissima riservata a chi guida i carri sacri o celebra un trionfo, e si assisero su seggiole d'avorio al centro delle loro case. Alcuni storici tramandano che il pontefice massimo Marco Folio li guidò nella recita di un voto solenne con il quale essi si offrirono in sacrificio per la patria e per i cittadini Romani. I Galli, sia perché la notte precedente ne aveva raffreddato gli ardori di guerra, sia perché né in battaglia avevano dovuto affrontare momenti critici né adesso erano costretti all'uso della forza per impossessarsi della città, senza rabbia e senza particolare accanimento il giorno successivo entrarono a Roma attraverso i battenti spalancati della porta Collina e si diressero verso il foro, volgendo gli sguardi in direzione dei templi degli dei e della cittadella che era l'unico punto che desse ancora l'idea della guerra in corso. Poi, dopo aver lasciato di guardia un modesto contingente al fine di evitare attacchi a sorpresa dalla cittadella e dal Campidoglio mentre erano dispersi qua e là, si buttarono alla caccia di bottino per le strade deserte dove nessuno andò a sbarrargli il cammino. Parte di essi irruppe nelle abitazioni più vicine, gli altri si spinsero fino alle case più lontane, come se soltanto quelle fossero intatte e piene di preda da portar via. Ma poi, di nuovo spaventati dalla solitudine che ugualmente vi regnava, temendo che qualche agguato nemico li sorprendesse così sparpagliati, tornavano a riunirsi nel foro e negli immediati dintorni. E qui, avendo trovato sprangate le porte delle case plebee e spalancati gli atrii dei palazzi patrizi, esitarono quasi di più a penetrare nelle abitazioni aperte che in quelle chiuse. Tale era il sentimento non diverso dalla venerazione provato da essi al vedere seduti nei vestiboli delle case uomini in tutto simili a dei non solo per gli abiti e gli ornamenti più sontuosi di quelli in uso tra i mortali, ma anche per la maestà che spirava dai loro volti e la gravità dell'espressione. Mentre i Galli li fissavano assorti come se fossero statue, pare che uno di essi, Marco Papirio, quando uno dei barbari gli si avvicinò per accarezzargli la barba (lunga come era d'uso in quel tempo), ne scatenò la reazione rabbiosa colpendolo sulla testa con il bastone d'avorio e diede così il via al massacro. Gli altri furono trucidati sui loro seggi. Una volta completata la carneficina dei nobili, non ci fu più pietà per nessuno: le abitazioni vennero saccheggiate e date alle fiamme dopo esser state svuotate da cima a fondo.

I romani non si perdono d'animo

I Romani, vedendo dall'alto della rocca la città pullulare di nemici lanciati all'impazzata per le strade, mentre ora da una parte e ora dall'altra si succedevano sempre nuovi disastri, non solo non riuscivano a capacitarsene, ma neanche più a credere alle proprie orecchie e alla propria vista. Volgevano lo sguardo e l'animo dovunque li richiamasse il clamore dei nemici, il pianto di donne e bambini, il crepitare delle fiamme e il fragore degli edifici che crollavano, essi, atterriti da tutto, come se il destino li avesse piazzati là, spettatori del crollo della patria, costringendoli, dopo averli privati di tutti gli altri beni, a non poter difendere nient'altro che le loro stesse persone fisiche, tanto più degni di compassione di chiunque altro avesse subito assedi: infatti i Romani, assediati fuori della patria, vedevano ogni loro cosa in balia delle mani nemiche. A un giorno così orribile tenne dietro una notte che non fu certo più serena. Alla notte fece poi seguito un giorno all'insegna dell'angoscia, durante il quale non ci fu un solo attimo privo del sinistro spettacolo di disastri senza tregua. Tuttavia, pur essendo così gravati e schiacciati dall'imperversare delle sventure, nulla riuscì a piegare la risolutezza dei loro caratteri: pur vedendo tutto raso al suolo dall'azione delle fiamme e dai crolli, continuavano a difendere gagliardamente come estremo baluardo di libertà il colle su cui si erano rifugiati, per quanto fosse piccolo e povero. E siccome ogni giorno si ripetevano le stesse identiche scene, come se fossero avvezzi ormai alla disgrazia, i Romani erano divenuti insensibili alla perdita dei loro beni: e guardavano solo, come estremi brandelli di speranza, agli scudi e alle spade impugnate nelle destre.

L'assedio del Campidoglio e la vittoria di Marco Furio Camillo

Da parte loro i Galli, dopo essersi per giorni accaniti contro gli edifici della città senza ottenere alcun risultato, quando si resero conto che in mezzo alle macerie sopravvissute agli incendi non restavano altro che nemici armati fino ai denti (i quali, per nulla terrorizzati da tanti disastri, davano l'impressione di non poter essere piegati se non col ricorso alla forza), optarono per la risoluzione estrema di un attacco alla cittadella. Così, quando alle prime luci del giorno venne dato il segnale, l'intera massa dei Galli si schierò nel foro con una formazione a testuggine e, dopo aver alzato il grido di guerra, mosse all'attacco. Per contrastarli, i Romani attestati sull'alto evitarono di lasciarsi prendere dall'avventatezza e dalla precipitazione. Rinforzarono i posti di guardia in prossimità di tutti gli accessi e là dove vedevano i nemici avanzare opposero i loro uomini più validi, permettendo ai Galli di progredire nell'ascesa, convinti che sarebbe stato tanto più facile respingerli già dal pendio quanto più essi si fossero spinti verso la cima. Così, attestandosi più o meno a metà dell'erta, i Romani, dopo aver lanciato l'attacco da quella posizione sopraelevata che quasi di per se stessa sembrava proiettarli contro il nemico, sbaragliarono i Galli in maniera così netta e schiacciante da convincerli a non ripetere quel tipo di attacco né con una parte né con l'intero schieramento di forze a disposizione. Avendo quindi abbandonato ogni speranza residua di salire sulla cittadella col ricorso alla forza delle armi, i Galli si prepararono a cingerla d'assedio. Ma, non avendo fino a quel preciso momento pensato a una simile soluzione, con gli incendi appiccati all'interno della città avevano distrutto tutto il frumento che vi si trovava in deposito, mentre quello che c'era ancora nei campi i Romani l'avevano trasportato in fretta a Veio in quei giorni. Così, dopo aver diviso l'esercito in due, decisero di affidare a una parte il compito di razziare le terre dei popoli confinanti, impiegando il resto delle truppe nell'assedio della cittadella, in maniera tale che gli uomini impegnati nei saccheggi potessero provvedere all'approvvigionamento degli assedianti. Quando i Galli partirono da Roma, la mano del destino volle indirizzarli su Ardea (luogo dell'esilio di Camillo), a far la prova delle virtù del popolo romano. In quella città Camillo - afflitto più per i tristi casi della terra d'origine che per le proprie sventure - stava consumando il meglio dei propri anni inveendo contro uomini e dei e domandandosi con sdegno stupito dove fossero finiti gli uomini che insieme a lui avevano conquistato Veio e Faleri e che avevano condotto altre guerre più con il proprio valore che con l'appoggio della fortuna. Là Camillo venne a sapere all'improvviso che l'esercito dei Galli era alle porte e che gli abitanti di Ardea stavano deliberando in preda al panico sul come affrontare la situazione. Spinto da un'ispirazione non meno che divina, Camillo si presentò nel bel mezzo dell'assemblea (lui che in precedenza si era sempre tenuto alla larga da quel tipo di riunioni) e lì pronunciò un discorso che accese gli animi dei suoi sostenitori al punto che fu in grado di assaltare e distruggere con il favore della sorpresa notturna l'accampamento dei Galli, nei pressi della città di Ardea stessa, massacrando totalmente il nemico. Allo stesso modo, anche i soldati romani che si erano ritirati a Veio, ai comandi del centurione Quinto Cedicio, riuscirono a battere in due scontri campali alcuni contingenti etruschi che, approfittando della situazione in cui versava Roma, ne stavano razziando le campagne più settentrionali.

Il Campidoglio resiste mentre a Veio si prepara la controffensiva

Nel frattempo a Roma l'assedio si trascinava stancamente e da entrambe le parti regnava il silenzio: e mentre l'unica preoccupazione dei Galli era di evitare fughe di nemici attraverso le proprie linee, ecco che all'improvviso un giovane romano riuscì ad attirare su di sé l'attenzione dei concittadini e dei nemici. La famiglia dei Fabii aveva l'obbligo annuale di offrire un sacrificio sul colle Quirinale. Per celebrarlo, Gaio Fabio Dorsuone, con la toga stretta in vita alla maniera di Gabi e reggendo in mano i sacri arredi, scese dal Campidoglio, attraversò i posti di guardia del nemico e raggiunse il Quirinale senza dare il minimo peso alle urla minacciose. Là, dopo aver devotamente compiuto tutti i riti previsti, tornò indietro seguendo il percorso dell'andata con la stessa imperturbabilità di espressione e con la stessa fermezza di passo, assolutamente sicuro di godere del favore di quegli dei dal cui culto nemmeno il terrore della morte era riuscito a distoglierlo. Fece così ritorno incolume sul Campidoglio in mezzo ai compagni, sia che i Galli rimanessero bloccati per la straordinaria temerarietà del suo gesto o che li trattenesse lo scrupolo religioso, sentimento questo che non lascia certo indifferente quella gente. A Veio nel frattempo crescevano giorno dopo giorno non soltanto il coraggio ma anche le forze: e visto che dalle campagne affluivano in città sia i Romani che avevano vagato senza meta dal giorno della sconfitta presso l'Allia o dopo la caduta di Roma, sia dei volontari arrivati dal Lazio nel desiderio di unirsi alla spartizione del bottino, sembrò allora giunto il momento per riconquistare la patria perduta strappandola alle mani del nemico. Ma a quel corpo in perfetta salute mancava una testa. Gli stessi luoghi richiamavano alla memoria della gente la persona di Camillo, e buona parte dei soldati avevano combattuto con successo sotto il suo comando e i suoi auspici. Oltre a questo Cedicio dichiarò che non avrebbe offerto il destro a nessuno tra gli dei o tra gli uomini di togliergli il comando, piuttosto che chiedere lui stesso - memore com'era del proprio grado militare -, la nomina di un generale. Fu così deciso all'unanimità di far venire Camillo da Ardea, ma non prima di aver consultato il senato che si trovava a Roma. Tale era il rispetto per la legge e la distinzione dei poteri anche in quel frangente quasi disperato. Per superare i posti di guardia nemici bisognava affrontare dei rischi enormi. Per questa missione si offrì Ponzio Comino, un giovane coraggioso, il quale, disteso su un tronco di sughero, sfruttando la corrente favorevole del Tevere raggiunse Roma. Là, passando nel punto meno distante dalla riva, salì sul Campidoglio lungo un tratto così ripido che i nemici l'avevano lasciato incustodito e, portato di fronte ai magistrati, consegnò loro il messaggio dell'esercito. Poi, ricevuto il decreto del senato (secondo il quale i comizi curiati avrebbero dovuto immediatamente richiamare Camillo dall'esilio, consentendo ai soldati di scegliersi come comandante l'uomo che preferivano), Ponzio Comino raggiunse Veio seguendo lo stesso percorso dell'andata. Di lì vennero mandati degli ambasciatori ad Ardea per riportare Camillo a Veio, o piuttosto - come io sono più propenso a credere, egli non lasciò Ardea prima di aver appreso che la legge era stata votata, perché non poteva mutare residenza senza un preciso ordine del popolo né trarre gli auspici nell'esercito prima di essere nominato dittatore. La legge fu approvata nei comizi curiati ed egli fu eletto dittatore pur non essendo presente.

Le oche del campidoglio

Mentre a Veio succedevano queste cose, nel frattempo la cittadella di Roma e il Campidoglio corsero un gravissimo pericolo. Infatti i Galli, o perché avevano notato orme umane nel punto in cui era passato il messaggero giunto da Veio, o perché si erano resi conto da soli che l'erta nei pressi del tempio di Carmenta poteva essere superata senza difficoltà, una notte debolmente rischiarata inviarono prima in avanscoperta un uomo disarmato per accertare che il passaggio fosse praticabile; poi, passandosi le armi nei punti più difficili, appoggiandosi a vicenda e spingendosi verso l'alto gli uni con gli altri a seconda della natura del terreno, raggiunsero la cima in un tale silenzio che non solo riuscirono a passare inosservati alle sentinelle, ma non svegliarono nemmeno i cani che invece sono animali sensibilissimi ai rumori notturni. Non sfuggirono però alla vigilanza delle oche che, non ostante la grande penuria di viveri, erano state risparmiate perché sacre a Giunone. E questo fatto salvò i Romani. Svegliato infatti dal verso e dallo starnazzare delle oche, Marco Manlio, che era stato console tre anni prima e si era sempre distinto in campo militare, afferrando le armi e insieme chiamando gli altri a imitarlo, si fece avanti e mentre i suoi compagni correvano in disordine a armarsi, con un colpo di scudo ricacciò giù dal pendio un Gallo che era già riuscito a raggiungere la sommità dell'erta. Ma siccome la sua caduta travolse quelli che gli venivano dietro, altri Galli, colti dal panico, nel tentativo di aggrapparsi con le mani alle rocce alle quali aderivano con il corpo, lasciarono cadere le armi e finirono sotto i colpi di Manlio. Essendosi nel frattempo aggiunti anche altri Romani, i nemici vennero ricacciati dalle rocce con lancio di frecce e di pietre, cosicché l'intero contingente di Galli fu respinto con successo franando rovinosamente giù dal precipizio. Tornata la calma, per quanto era consentito a menti sconvolte dal ricordo del pericolo anche se ormai passato, il resto della notte venne dedicato al riposo. Alle prime luci del giorno, il suono delle trombe chiamò i soldati all'adunata di fronte ai tribuni. E siccome era necessario ricompensare chi aveva fatto il proprio dovere e punire chi invece non era stato all'altezza, prima di ogni altra cosa Manlio venne elogiato per il suo coraggio e premiato non solo dai tribuni dei soldati ma anche all'unanimità dai soldati, ciascuno dei quali portò mezza libbra di grano e un quarto di vino alla sua casa sulla cittadella: ricompensa modesta, a parole, ma che in quella situazione di grave penuria era prova di enorme affetto, in quanto ogni soldato, per onorare quell'unico uomo, si privava di viveri, li sottraeva alla propria persona e necessità. Poi vennero chiamati in giudizio le sentinelle di guardia nel punto in cui i nemici erano riusciti a salire senza che nessuno se ne accorgesse. Il tribuno Quinto Sulpicio annunciò di volerli punire tutti in base alla legge marziale: ma trattenuto dalle concordi grida dei soldati che addossavano la responsabilità dell'accaduto su un'unica sentinella, risparmiò gli altri, e, col consenso di tutti, fece scaraventare dalla rupe Tarpea l'uomo che senza dubbio era il responsabile di quella colpa. Da quel momento in poi da entrambe le parti la vigilanza fu più accurata: sia presso i Galli che erano venuti a sapere dell'avvenuto passaggio di messaggeri tra Roma e Veio, sia presso i Romani, memori del pericolo corso quella notte.

Vae Victis!

Ma più che da tutti i mali dell'assedio e della guerra, entrambi gli eserciti erano tormentati dalla fame e i Galli anche da un'epidemia dovuta al fatto che il loro accampamento si trovava in un punto depresso in mezzo alle alture, bruciato dagli incendi e pieno di esalazioni, dove bastava un alito di vento per sollevare polvere e cenere. I Galli, non riuscendo a sopportare quelle esalazioni proprio perché erano un popolo abituato al freddo e all'umidità, morivano soffocati dal grande calore mentre il contagio si diffondeva come se si fosse trattato di bestiame, per pigrizia di seppellire i cadaveri ad uno ad uno li bruciavano a mucchi accatastati alla rinfusa, rendendo così in seguito famoso quel luogo col nome di Tombe dei Galli. Venne poi stipulata una tregua con i Romani e, con l'autorizzazione dei comandanti, si iniziarono colloqui. Ma dato che durante queste conversazioni i Galli non perdevano occasione per rinfacciare agli avversari la fame che pativano e li invitavano ad arrendersi piegandosi a questa necessità, pare che per far loro cambiare idea a tale riguardo venne gettato giù da molti punti del Campidoglio del pane in direzione dei posti di guardia nemici. Soltanto che ormai la fame non poteva più né essere dissimulata né tollerata a lungo. E così, mentre il dittatore era impegnato a realizzare di persona una leva militare ad Ardea, e dopo aver ordinato al maestro di cavalleria Lucio Valerio di marciare da Veio a capo di un esercito disponeva e preparava le truppe per affrontare i nemici in condizioni di parità, nel frattempo gli uomini attestati sul Campidoglio, stremati dai turni di guardia e dai picchetti armati, non riuscivano a superare quell'unico ostacolo, la fame. La natura non permetteva di averne ragione non ostante avessero già affrontato con successo tutti i mali che possono capitare a degli esseri umani, spiavano di giorno in giorno se apparisse un qualche aiuto da parte del dittatore; alla fine, quando ormai non solo il cibo ma anche la speranza era venuta a mancare e i loro corpi indeboliti erano quasi schiacciati dal peso delle armi nell'incalzare dei turni di guardia, il dittatore ordinò loro di chiedere la resa e il riscatto a qualunque condizione, anche perché i Galli avevano fatto sapere in maniera più che chiara di essere disposti a togliere l'assedio a un prezzo per nulla esorbitante. Allora si tenne una seduta del senato nella quale venne dato ai tribuni militari l'incarico di definire i termini dell'accordo. La questione venne regolata in un colloquio tra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: il prezzo pattuito per un popolo presto destinato a regnare sul mondo fu di mille libbre d'oro. A questa trattativa già di per sé infamante venne aggiunto anche un oltraggio: i Galli portarono dei pesi tarati in maniera disonesta e siccome il tribuno protestò, l'insolente comandante dei Galli aggiunse al peso la propria spada, pronunciando una frase insopportabile per le orecchie dei Romani: "Guai ai vinti!".

La duplice vittoria di Marco Furio Camillo

Ma né gli dei né gli uomini tollerarono che i Romani sopravvivessero a prezzo di un riscatto. Infatti, per una sorte provvidenziale, prima ancora che il vergognoso mercato fosse concluso, mentre si era nel pieno delle trattative e l'oro non era stato pesato del tutto, sopraggiunse il dittatore che ordinò di far sparire l'oro e ingiunse ai Galli di andarsene. Siccome questi ultimi si rifiutavano sostenendo di aver stipulato un accordo, Camillo disse che non poteva avere validità un patto siglato, senza sua autorizzazione, dopo che era stato nominato dittatore, da un magistrato di rango inferiore, e intimò ai Galli di prepararsi alla battaglia. Ai suoi uomini diede disposizione di accatastare i bagagli, di preparare le armi per riconquistare la propria terra a colpi di spada e non al prezzo dell'oro, avendo davanti agli occhi i templi degli dei, le mogli e figli nonché il suolo della patria segnato dalle atrocità della guerra e tutto ciò che era sacro dovere riconquistare, difendere e vendicare. Poi schierò le truppe in ordine di battaglia come la natura del suolo permetteva sul terreno di per sé accidentato della ormai semidistrutta Roma, e prese tutte quelle misure che l'arte militare permetteva di scegliere e di predisporre in favore dei suoi uomini. Disorientati da questa iniziativa, i Galli prendono le armi e si buttano all'assalto dei Romani più con rabbia che con raziocinio. Ma ormai la sorte era cambiata e la potenza divina e la saggezza umana erano dalla parte di Roma. Così, al primo scontro, i Galli vennero sbaragliati con minore sforzo di quanto essi ne avessero impiegato nella vittoria presso il fiume Allia. Poco dopo, in una seconda e più regolare battaglia a otto miglia da Roma sulla Via Gabinia, dove si erano raccolti dopo la fuga, vennero di nuovo sconfitti sempre sotto il comando e gli auspici di Camillo. Là il massacro non ebbe limiti: venne preso l'accampamento e non fu lasciato in vita nemmeno un messaggero che tornasse indietro a riferire della disfatta. Dopo aver recuperato la patria strappandola al nemico, il dittatore tornò in trionfo a Roma e, in mezzo ai lazzi grossolani improvvisati in quelle occasioni dai soldati, con lodi non certo immeritate venne salutato come Romolo, padre della patria e secondo fondatore di Roma. Dopo averla salvata in tempo di guerra, Camillo salvò di nuovo la propria città quando, in tempo di pace, impedì un'emigrazione in massa a Veio, non ostante i tribuni - ora che Roma era un cumulo di cenere - fossero più che mai accaniti in quest'iniziativa e la plebe la appoggiasse già di per sé in maniera ancora più netta. Fu questo il motivo per il quale egli non rinunciò alla dittatura dopo la celebrazione del trionfo, visto che il senato lo implorava di non abbandonare il paese in quel frangente così delicato.